Dalla rassegna stampa di ieri domenica 17 febbraio vogliamo segnalarvi questo articolo, apparso su La…
Condividiamo, con convinzione, il testo di un interessante articolo a firma di Tomaso Montanari pubblicato su La Repubblica di domenica 15 aprile.
Uno dei danni collaterali del cambiamento climatico è la distruzione di estese porzioni di ciò che definiamo “patrimonio storico e artistico”: che è poi la forma dell’Italia, quella unione indivisibile di natura e arte che la cultura italiana tra John Ruskin e Benedetto Croce chiamava “il volto amato della patria”. Se, infatti, continua a piovere come è piovuto nelle ultime settimane (tanto, e tutto insieme dopo mesi di siccità) le mura e le torri di San Gimignano continueranno a crollare: e con esse quelle di Volterra, le chiese di Napoli, le case di Pompei, e tanto altro ancora.
Oltre a invertire la rotta dei comportamenti umani che concorrono a stravolgere il clima c’è qualcos’altro che possiamo e dobbiamo fare. Il sindaco di San Gimignano ha dichiarato che mettere in sicurezza le parti di mura oggi a rischio costerebbe alcune centinaia di migliaia di euro, che non trovano posto nel bilancio comunale. Lo stesso Comune, tuttavia potrebbe destinare a questo e ad altri importanti interventi di restauro otto milioni di euro, ora bloccati in banca dal Patto di stabilità. Ecco una prima cosa: bisogna fare per il patrimonio ciò che si è fatto per le scuole, cioè sottrarlo al cappio di quel Patto.
In un’epoca recente in cui il nostro Paese era più consapevole di se stesso, ottenemmo che il patrimonio mobile costituisse un’eccezione alla regola della libera circolazione europea delle merci. L’Italia non ebbe la forza di pretendere che i beni culturali non fossero ritenuti una merce, ma convinse almeno gli altri Paesi a non considerarli una merce come un’altra, ricavando una seppur timida zona franca dalle ferree regole dell’onnipotente mercato. Oggi siamo purtroppo lontani da quella consapevolezza: nella scorsa legislatura abbiamo approvato una legge che, regolando l’esportazione delle opera d’arte attraverso il sistema puramente economicistico delle soglie di valore e della risibile autocertificazione, cancella di fatto quell’eccezione culturale faticosamente ottenuta ai tempi di Maastricht.
Ma non è troppo tardi per provare a bloccare l’involuzione culturale a cui ci stiamo condannando da soli. Oggi si tratta di combattere per salvare una parte di patrimonio se possibile ancora più importante dei quadri e delle sculture che stanno nelle case private: e cioè le mura antiche di chiese, torri e città che hanno formato la nostra memoria collettiva e possono e devono continuare a dare una forma civile alla comunità italiana del presente e del futuro.
Ne va della nostra sopravvivenza fisica: perché il patrimonio ci cade letteralmente sulla testa. Ma ne va anche della nostra sopravvivenza morale, della sorte della nostra democrazia. E’ una grande questione di sinistra: perché in una Italia sfigurata dalla diseguaglianza, il patrimonio culturale è tra le poche cose che appartiene a tutti, senza distinzioni e che può nutrire il riscatto culturale di chi sta in basso. Prendersi cura delle parti comuni e apparentemente inutili delle città storiche significa affermare con forza che “non ci si salva da soli”, e che i beni comuni non possono sottostare al ricatto del mercato.
Di beni comuni e di patrimonio pubblico in s-vendita si è parlato proprio sabato e domenica scorsi qui a Venezia, nel corso di questo convegno in cui lo stesso Montanari è intervenuto con un video-intervento (qui, da 1:40:30 in poi).
Una delle sessioni del convegno è stata dedicata a una cosiddetta “Passeggiata Consapevole“, tra i casi più eclatanti e disperati di beni architettonici e ambientali sviliti dal mercato e dalla logica che riduce Venezia a un turistificio: Sant’Anna a Castello, l’isola di Poveglia, la Ca’ di Dio, Palazzo D0nà e infine il “nostro” Fondaco dei Tedeschi.
In quest’ultima tappa Lidia Fersuoch ha ricordato l’impegno, purtroppo vano, di Italia Nostra per il rispetto della materia e della memoria della fabbrica cinquecentesca. Un restauro-mercato che ha reso il patrimonio merce e la storia solletico.